Cinofilia, ambizione ed expo: un labirinto in cui è facile restare prigionieri.

 

Tempo fa un'amica allevatrice che produce cani molto validi, molti dei quali esportati all'estero, mi disse queste parole: ”Io ho cani in America, in Asia, in Europa: io posso dire di aver dato davvero qualcosa alla cinofilia!”.

Queste parole mi hanno fatto molto riflettere, perché credo che effettivamente ogni allevatore dovrebbe porsi seriamente questa domanda: “Cosa voglio dare, io, alla cinofilia?”

Spesso l'idea di cinofilia di qualità viene ridotta ad una serie di competizioni di livello più o meno alto che si svolgono tra una cerchia ristretta di cani.

Oggi come oggi, essendo il trasporto di animali su lunghe distanze divenuto più agevole (soprattutto per un cane come il bassotto che, grazie alle piccole dimensioni, può tranquillamente viaggiare nella cabina di un aereo passeggeri), stiamo assistendo ad un continuo scambio di cani tra paesi lontanissimi, scambio che si basa prevalentemente sulla ricerca di alcune linee di sangue universalmente considerate particolarmente pregiate; questa situazione, come sempre accade, presenta risvolti sia positivi che negativi.

Tra gli aspetti positivi c'è senz'altro la possibilità di reperire facilmente sangue nuovo per il proprio allevamento; inoltre lo scambio di informazioni e di soggetti, il confronto e la competizione tra allevatori di diversi paesi, creano i presupposti per un allevamento ottimale della razza.

D'altro canto è pur vero che, paradossalmente, a volte diviene più facile trovare un parente del proprio cane a migliaia di chilometri di distanza piuttosto che dietro l'uscio di casa; inoltre questo scambio interessa principalmente allevatori il cui scopo è divenire proprietari di soggetti che possano vincere in expo, al fine di acquisire prestigio per il proprio allevamento e facilitare di conseguenza la vendita dei propri soggetti, sempre e di nuovo come cani da esposizione, in un circuito a spirale in cui tutto sembra finalizzato alle esposizioni ed alla conseguente crescita di prestigio personale.

Ora, io non voglio mettermi certo a pignoleggiare sui numeri, ma sta di fatto che la maggior parte dei cani esistenti al mondo li possiamo incontrare per strada o a correre in campagna, passeggiando con il proprio padrone, nei giardini e nelle case della gente comune, e non in expo. Eppure, in questo circuito elitario di grandi allevatori, vendere un buon soggetto a qualcuno che poi non lo porti in expo è considerato uno spreco inaccettabile. Più di una volta, e da più di un allevatore, ho sentito pronunciare queste parole: “Eh, ma questo cucciolo è un soggetto molto bello: non posso certo darlo a qualcuno che poi me lo tiene sul divano!”


Dunque, una vita passata in famiglia, lontano dai ring, è considerata una vita sprecata...? E l'unico scopo di un allevamento deve essere quello di vincere o vendere cani da expo? Domande da cui ne scaturisce un'ultima, davvero cruciale: dunque sono le esposizioni ad essere al servizio della razza, o sono gli allevatori al servizio delle esposizioni? Dov'è il confine sottile che separa la giusta ricerca di una buona qualità tecnica dal mero appagamento della propria ambizione personale? E soprattutto: ma allora, fuori dal circuito espositivo, si devono vendere solo gli “scarti” dell'allevamento?

Io credo che la cinofilia dovrebbe essere come una piramide in cui il vertice e la base sono solo due diversi aspetti di un unico tutto: un buon allevamento a livello nazionale, in cui tra i cani che calcano i ring e quelli che vivono in famiglia non ci siano le differenze abissali che, purtroppo, spesso si vedono.

Sarebbe davvero bello se, camminando per strada, potessimo incontrare soggetti altrettanto belli di quelli che vediamo sui ring; sarebbe bello se un allevatore, cercando uno stallone valido per la propria fattrice, potesse ricorrere al cagnolino del vicino di casa perché in possesso dei giusti requisiti, invece di dover sempre cercare le monte a centinaia di chilometri di distanza; sarebbe bello se le esposizioni diventassero ciò che dovrebbero essere: lo specchio della situazione globale della razza nel paese, dalla base fino al vertice, e non uno sterile scontro tra le ambizioni di pochi.

La situazione attuale (almeno in Italia) purtroppo è assai diversa. Molti allevatori sono gelosi delle proprie linee di sangue e si rifiutano di metterle a disposizione; spesso si rifiutano di vendere soggetti di pregio a privati che non sono interessati alle expo, o se lo fanno alzano i prezzi in maniera esorbitante rendendoli di fatto inaccessibili per le famiglie comuni; questo fatto lascia campo libero ai cosiddetti “canari”, persone che allevano senza scrupolo né selezione (sia dal punto di vista morfologico che della salute) e che spargono cuccioli senza pedigree e pieni di problemi e tare genetiche. Dal canto loro, gli allevatori denunciano e criticano giustamente questo fatto, ma in molti non si adoperano minimamente per arginarlo cedendo su qualche punto.

Io credo che in cinofilia, come in tutto il resto, la vera qualità coincida con un grande equilibrio, e per raggiungerlo bisognerebbe che tutti fossimo disposti a rinunciare a qualcosa: ad un po' di orgoglio, ad un po' di ambizione, ad un po' di soldi, ad un po' di comodità, ad un po' di ignoranza, ad un po' di pigrizia.

Ogni obiettivo veramente ambizioso è fuori dalla portata del singolo, mentre si potrebbe raggiungere con la collaborazione tra molti. Un albero, per stare in piedi, ha bisogno di tutte le sue parti -radici, tronco, rami, foglie- apparentemente diverse tra loro eppure tutte aspetti irrinunciabili dello stesso albero.


Se nelle case della gente comune ci fossero più bei cani, il patrimonio genetico della razza sarebbe più ben distribuito e più salvaguardato. Il rischio di consanguineità eccessiva (sempre dietro l'angolo in ogni allevamento) sarebbe limitato, perché il numero di soggetti a cui ricorrere per gli accoppiamenti sarebbe più elevato.

Se le esposizioni fossero ciò che dovrebbero essere, e cioè un'occasione di scambio per il mondo cinofilo e un incontro sportivo per mettere alla prova i propri soggetti, allora rappresenterebbero davvero uno strumento di crescita e di apertura, invece di ridursi ad un momento di competizione esasperata e di pura espressione dell'umano desiderio di prevalere sugli altri.

Quindi, tornando alla domanda iniziale “Cosa voglio dare io alla cinofilia?” la risposta che oggi mi do è questa: voglio impegnarmi ad allevare nel miglior modo che sia consentito dalle mie possibilità materiali ed umane; voglio confrontarmi in expo con i miei soggetti migliori, ma sempre sportivamente e serenamente e senza divenire schiava della mia stessa ambizione e, quale che sia l'obiettivo tecnico perseguito, voglio sempre mettere al primo posto il rispetto ed il benessere dei miei cani, perché se si perdesse quello si perderebbe il senso stesso della parola “cinofilia”.

Soprattutto voglio rispettare tutte le posizioni e le opinioni diverse dalla mia a patto che, a loro volta, esse rispettino i cani (prima di tutto) e le altre posizioni e opinioni diverse dalla loro.

Questa sarebbe vera collaborazione, vera unità: non un appiattirsi globale su un'unica linea di azione e di pensiero, bensì un intersecarsi di convinzioni e visioni diverse che, così come dovrebbe essere un ricco e pregevole patrimonio genetico, rendano l'attività allevatoriale un'esperienza viva e stimolante, ricca di scambi tra diverse posizioni e diversi punti di vista, tutte egualmente indispensabili per alimentare, comprendere e sostenere un campo così vasto come quello dell'allevamento cinofilo.

Questo è ciò che vorrei dare alla cinofilia; ma soprattutto è, io credo, ciò di cui la cinofilia avrebbe davvero bisogno per sopravvivere.

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